Se già non era sufficiente una pandemia globale che non accenna ad arrestarsi, una campagna vaccinale che ancora arranca e una continua incertezza politica, questa mattina ci ritroviamo una nuova emergenza all’orizzonte. Di cosa parlo? Mi riferisco alla lista delle aree potenzialmente idonee, rese note da Sogin, ad ospitare un deposito per i rifiuti radioattivi che produciamo quotidianamente nel nostro paese e alle reazioni che ha sollevato.
Numerosi, infatti, i commenti sui principali social network e altrettante le dichiarazioni di alcuni sindaci dei comuni interessati e delle associazioni ambientali da cui emerge una percezione distorta di quello che è il nucleare nel nostro paese, da dove provengono i rifiuti da stoccare e che vanno quasi ad equiparare un deposito di rifiuti radioattivi a Chernobyl.
Facciamo un passo indietro. La necessità di realizzare un deposito nazionale arriva nel 2003, ma il percorso fino ad oggi è stato lento e non privo di ostacoli, tanto da portare alla pubblicazione della Cnapi, Carta nazionale delle aree più idonee solo oggi ad inizio 2021. Il deposito, che verrà costruito in una di queste aree, sarà un’infrastruttura ambientale di superficie che permetterà di sistemare definitivamente in sicurezza i rifiuti radioattivi, oggi stoccati all’interno di decine di depositi temporanei presenti nel Paese, prodotti dall’esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari e dalle quotidiane attività di medicina nucleare, industria e ricerca. Qui saranno smantellati o stoccati rifiuti radioattivi a media e bassa attività come, nello specifico, reagenti farmaceutici, mezzi radiodiagnostici degli ospedali e terapie nucleari, radiografie industriali, guanti e le tute dei tecnici ospedalieri, controlli micrometrici di spessore delle laminazioni siderurgiche. Una parte dei materiali che saranno stoccati in questo deposito deriverà dalle centrali nucleari (Trino Vercellese, in Piemonte, Caorso, in provincia di Piacenza, Latina, in Lazio, e Garigliano, in Campania), attive in Italia fino al 1987 quando ne è stata disposta la chiusura con il referendum.
C’è poi da evidenziare un altro dato: in Italia conserviamo 31mila metri cubi di scorie irraggiate. Una parte di queste scorie perde pericolosità perché la radioattività decade con il passare del tempo, ma ogni anno ne aggiungiamo molte di più. Si stima che fra una cinquantina d’anni le future generazioni dovranno gestirne 45mila metri cubi in più rispetto a quelli di oggi, per un totale di 75mila-80mila metri cubi.
Dove sta l’inghippo di questa vicenda? La pubblicazione della Cnapi e la messa online del sito web dedicato al deposito nazionale ci hanno colto alla sprovvista. Il sito è una fonte di preziose informazioni e risponde a tante domande comuni su questo tema: è sicuro? Quanti rifiuti radioattivi conterrà? Perché è necessario? A cui si aggiungono tanti riferimenti anche i depositi temporanei che attualmente sono presenti in Italia e dove sono situati quelli all’estero. Tutto questo patrimonio di informazioni e contenuti dovrebbe essere diffuso e valorizzato con una campagna di comunicazione strategica e trasparente mirata sia ai cittadini che vivono nelle aree inserite dalla possibile costruzione del deposito ma anche a livello nazionale. Dovremmo tornare a parlare di nucleare e non limitarci ai soli fatti di cronaca, dovremmo fare prevenzione e tanta informazione su questo rischio, su cos’è un deposito nazionale e qual è l’attuale situazione del nucleare in Italia. Ma soprattutto dovremmo coinvolgere i cittadini in questo dialogo sul nucleare coinvolgendo tutti e non solo quelli più impegnati nei comitati nimby. La pandemia dovrebbe averci insegnato quanto sia fondamentale per la gestione di una emergenza una comunicazione strutturata, tempestiva e con al centro il cittadino, perché non provare ad applicarla anche in questo caso?
Per info: https://www.depositonazionale.it/
[Nella sezione download del blog potete scaricare la mia tesi di laurea magistrale sulla comunicazione del rischio nucleare]